TRIBUNALE ORDINARIO DI UDINE Sezione seconda civile Il Tribunale, in composizione collegiale nelle persone dei seguenti magistrati: dott. Francesco Venier - Presidente; dott. Gianpaolo Fabbro - Giudice; dott. Lorenzo Massarelli - Giudice estensore; nel procedimento per reclamo ex art. 630 ultimo comma del codice di procedura civile iscritto al n. r.g. 772/2022 o 260/2015 R.G. Es.) promosso da: Vidoni Maria Lucia (c.f.: VDNMLC41T59D700S); Coletti Manuela (c.f.: CLTMNL68A48Z110R) entrambe con gli avv.ti Paolo Penna e Guglielmo Pinto - debitrici esecutate - reclamanti; contro Sagliocca Salvatore (c.f.: SGLSVT62A25F839U) che si difende in proprio ex art. 86 del codice di procedura civile AMCO - Asset Management Company S.p.a. (codice fiscale n. 05828330638) con l'avv. Marino ferro - creditori. Ha emesso la seguente Ordinanza nel corso del processo di esecuzione forzata per espropriazione immobiliare, registrato al n. 260/2015 RG, le debitrici esecutate hanno depositato in data 21 novembre 2021 ricorso per ottenere la dichiarazione di estinzione del giudizio. Il giudice dell'esecuzione dott. Francesco Venier, sentite le parti e con ordinanza del 30 dicembre 2021, ha respinto l'eccezione. Le debitrici esecutate hanno proposto tempestivo reclamo ex art. 630, ultimo comma, del codice di procedura civile avverso il provvedimento sfavorevole. Come stabilito dal richiamato art. 178, quarto e quinto comma, del codice di procedura civile il mezzo e' stato proposto con ricorso diretto al giudice dell'esecuzione e comunicato alle altre parti, con termine per eventuali memorie di risposta. I creditori reclamati hanno depositato le loro deduzioni. In vista della camera di consiglio per la deliberazione, le reclamanti hanno formulato eccezione di illegittimita' costituzionale «del combinato disposto degli articoli 630, 178 e segg., 50-bis, 50-quater, 669-terdecies e 738 del codice di procedura civile, 186-bis, disposizione di attuazione del codice di procedura civile, in relazione agli articoli 3, 24, 25 e 111 della Costituzione con riferimento alla composizione dell'adito Collegio chiamato a decidere sul reclamo avverso l'ordinanza di rigetto dell'istanza di estinzione del 30/31 dicembre 2021 nel quale fa parte anche il Giudice che ha emesso il provvedimento reclamato». Le altre parti non hanno inteso interloquire sul punto. Il collegio, di cui fa parte anche il giudice dell'esecuzione a quo, ritiene che la questione sia rilevante e non manifestamente infondata. Quanto alla rilevanza, non c'e' dubbio che, per effetto del richiamo testuale all'art. 178 quarto e quinto comma del codice di procedura civile: il reclamo ex art. 630, ultimo comma, del codice di procedura civile deve essere presentato al giudice che dirige l'esecuzione, e cio' o mediante dichiarazione a verbale di un'udienza che egli tenga nel corso del processo esecutivo o mediante ricorso ad egli stesso diretto; il giudice dell'esecuzione, assicurata la conoscenza del mezzo alle altre parti e fissati i termini per repliche, riferisce omisso medio la questione in camera di consiglio al tribunale in composizione collegiale, che definisce l'affare con sentenza. Il dubbio sulla legittimita' costituzionale riguarda dunque norme processuali che vengono in diretta applicazione in questo giudizio, allo scopo di determinare la composizione di questo collegio giudicante. La questione sollevata, inoltre, si presenta come non manifestamente infondata. Contro i provvedimenti emessi dal giudice dell'esecuzione e' previsto ordinariamente il rimedio dell'opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 del codice di procedura civile. Ebbene, dal 2009 l'art. 186-bis disposizione di attuazione del codice di procedura civile stabilisce che il giudizio di cognizione di merito sull'opposizione proposta ex art. 617 del codice di procedura civile, al termine del quale si stabilira' se il provvedimento emesso e' o meno legittimo od opportuno, deve essere trattato da un magistrato diverso da quello che ha conosciuto degli atti avverso i quali e' proposta opposizione. In sostanza, allorche' l'oggetto dell'opposizione ex art. 617 del codice di procedura civile riguardi un provvedimento emesso (o non emesso) dal giudice dell'esecuzione, colui che deve giudicare la questione nel merito non puo' essere il medesimo magistrato. Ancora, allorche' il giudice dell'esecuzione provvede sull'istanza di sospensione dell'esecuzione stessa, proposta nell'ambito di ricorsi ex articoli 615, 617 o 619 del codice di procedura civile, la sua decisione puo' essere sottoposta a reclamo al collegio (art. 624, secondo comma del codice di procedura civile, introdotto nel 2005). Anche in questo caso, il richiamo testuale all'applicabilita' al relativo procedimento dell'art. 669-terdecies del codice di procedura civile comporta che del collegio investito del reclamo non possa far parte il giudice dell'esecuzione, posto che egli stesso ha emesso il provvedimento reclamato. Tali innovazioni normative hanno completamente rovesciato la precedente giurisprudenza (Cass. n. 5510/2003), anche costituzionale (Cost. n. 497/02), che dal canto suo non riteneva sussistere alcuna violazione degli artt. 24 e 111, secondo comma, della Costituzione nella possibilita' che il giudice dell'esecuzione divenisse anche il giudice decidente nel processo di cognizione apertosi ex art. 617 del codice di procedura civile in opposizione ad un suo proprio provvedimento pregresso: «(...) non essendovi identita' di res judicanda tra il processo esecutivo e l'eventuale causa di opposizione, ne' trattandosi di un'impugnazione in senso proprio, dal momento che il giudice dell'opposizione agli atti esecutivi, anche quando l'atto oggetto di opposizione e' costituito da un provvedimento del giudice dell'esecuzione, giudica in un processo a cognizione piena, nel contraddittorio delle parti, sulle cui domande ed eccezioni deve in ogni caso pronunciarsi (...)» (Corte costituzionale, cit.). Se questo e' il nuovo percorso che la legislazione piu' recente ha inteso imboccare, non resta che constatare che la disciplina del reclamo ex art. 630, ultimo comma, del codice di procedura civile, rimasta immutata rispetto all'evoluzione menzionata, si pone in termini inspiegabilmente opposti. Secondo le disposizioni vigenti, infatti, il giudice dell'esecuzione dovrebbe concorrere a deliberare con sentenza della correttezza della sua precedente statuizione circa l'estinzione del giudizio, in totale contrasto con quanto avviene nelle altre ipotesi in cui si discute, in sede di cognizione (art. 617 del codice di procedura civile) o di gravame (art. 624 del codice di procedura civile), della correttezza/legittimita'/opportunita' di una sua precedente decisione. Cio' costituisce un'eccezione non giustificabile rispetto al trattamento delle altre ipotesi affini, con chiara violazione del principio fissato dall'art. 3, comma primo, della Costituzione. Va peraltro ricordato sul punto che, nel vicino settore delle procedure concorsuali, il legislatore ha via via introdotto ulteriori previsioni intese ad impedire in ogni caso che il giudice incaricato di sovrintendere ad una procedura concorsuale sia chiamato a riesaminare (a qualsiasi titolo) sue precedenti statuizioni: - art. 25, secondo comma, legge fallimentare (in vigore dal 2006); - art. 99, decimo comma, legge fallimentare (in vigore dal 2006); - art. 10, comma 6, legge n. 3/2012; - art. 11, comma 5, legge n. 3/2012; - art. 12, comma 2, legge n. 3/2012; - art. 14, comma 5 (richiamato anche dall'art. 14-bis, comma 5), legge n. 3/2012. L'attuale tenore dell'art. 630, terzo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui richiama l'applicazione dell'art. 178, quarto e quinto comma del codice di procedura civile, disponendo quindi che del collegio giudicante faccia parte il giudice che ha emesso il provvedimento reclamato, pare dunque irragionevolmente diverso da altre norme oggi applicabili, nello stesso settore ed in altri ad esso affini, che cio' vietano. La questione puo' essere prospettata anche sotto altro profilo. L'art. 111, secondo comma, della Costituzione. prescrive che ogni processo si svolga dinanzi ad un giudice «imparziale». Cio' deve valere con riferimento a qualunque tipo di processo «pur nella diversita' delle rispettive discipline connessa alle peculiarita' proprio di ciascun tipo di procedimento» (Corte costituzionale n. 262/2003). Il legislatore puo' realizzare il principio in esame secondo moduli differenziati, ma deve sempre far si' che il giudice rimanga super partes ed estraneo rispetto agli interessi oggetto del processo, assicurando un minimum di garanzie ragionevolmente idonee allo scopo (Corte costituzionale n. 78/2002). In particolare, il legislatore deve impedire che il giudice possa pronunciarsi due volte sulla medesima res iudicanda (Corte costituzionale n. 335/2002), onde evitare la c.d. forza della prevenzione. Nel caso specifico la prescritta partecipazione del giudice dell'esecuzione al collegio che decide sul reclamo interposto avverso la sua ordinanza, emessa in materia di estinzione del processo esecutivo non consenta, mette in crisi tale principio. Va riconosciuto che la Corte costituzionale ha affermato che «(...) il principio di imparzialità-terzieta' della giurisdizione ha pieno valore costituzionale, ma (che) non possono applicarsi al processo civile ed ai processi amministrativi e tributari i principi elaborati con riferimento al processo penale, e segnatamente alle incompatibilita' di cui all'art. 34 del codice procedura penale, diverse essendo natura, struttura e funzione del processo penale, nel quale sussistono i principi dell'obbligatorieta' dell'azione in capo ad un organo pubblico, l'indisponibilita' della stessa, l'indefettibilita' della pronuncia del giudice (sentenze n. 326 del 1997, n. 51 del 1998, n. 363 del 1998 e, da ultimo, n. 78 del 2002): (che) questa Corte ha anche stabilito che il processo civile, informato all'operativita' del principio dispositivo, si svolge su un piano di parita' delle parti secondo il principio del contraddittorio e che il convincimento del giudice subisce di regola la mediazione dell'impulso delle parti fra le molte, sentenze n. 326 del 1997, n. 51 del 1998, e ordinanza n. 356 del 1997);». Tali argomenti, esposti nell'ordinanza n. 497/02 e riguardanti il settore affine dell'opposizione ex art. 617 del codice di procedura civile, sono completati dalla considerazione secondo cui: «(...) tali principi, ripetutamente affermati in numerose pronunce di questa Corte riguardanti il processo civile e quello amministrativo (fra le molte, ordinanze n. 126 del 1998, n. 304 del 1998, n. 168 del 2000, n. 220 del 2000, n. 167 del 2001), vanno confermati nel caso dell'opposizione agli atti esecutivi, regolata dagli articoli 617 e 618 del codice di procedura civile, non essendovi identita' di res judicanda tra il processo esecutivo e l'eventuale causa di opposizione, ne' trattandosi di un'impugnazione in senso proprio, dal momento che il giudice dell'opposizione agli atti esecutivi, anche quando l'atto oggetto di opposizione e' costituito da un provvedimento del giudice dell'esecuzione, giudica in un processo a cognizione piena, nel contraddittorio delle parti, sulle cui domande ed eccezioni deve in ogni caso pronunciarsi;». Da cio' il giudizio di manifesta infondatezza della questione in allora sollevata. Questo collegio intende in primo luogo sottolineare che il procedimento di reclamo ex art. 630, ultimo comma, del codice di procedura civile non puo' definirsi come un vero e proprio giudizio ordinario di cognizione. Innanzitutto, l'oggetto della sua delibazione e' limitato all'accertamento del verificarsi o meno di una fattispecie estintiva del processo, e cioe' la stessa identica questione che il giudice dell'esecuzione ha affrontato, allorche' e' stato chiamato in prima battuta a risolvere l'eccezione sollevatagli o rilevata d'ufficio. Affermare dunque che vi e' diversita' di res iudicanda fra la fase svoltasi dinanzi al giudice dell'esecuzione e quella da svolgersi dinanzi al collegio del reclamo parrebbe non essere corretto. Inoltre, il procedimento di reclamo, benche' destinato a concludersi con sentenza appellabile (art. 130 disposizione di attuazione del codice di procedura civile), consente alle parti un contraddittorio solamente cartolare. Peraltro, in esso non vi e' libero spazio all'estrinsecarsi del principio dispositivo tipico del processo civile, perche': non e' strutturalmente possibile un'istruttoria sulle istanze di parte; l'estinzione non puo' essere eccepita o rilevata oltre la prima udienza successiva al verificarsi della stessa (art. 630, secondo comma, del codice di procedura civile), sicche' chi solleva la questione non puo' rinunciare al reclamo (alla cui decisione partecipera' anche il giudice dell'esecuzione a quo) senza perdere definitivamente anche il diritto di eccepire l'estinzione del giudizio. Non trovano spazio quindi molti degli argomenti che hanno consentito di affermare in passato che l'affidamento della decisione sull'opposizione agli atti esecutivi al medesimo magistrato che ha pronunciato il provvedimento gravato non intacca il principio costituzionale di imparzialita' del giudice. In secondo luogo, occorre ricordare che, secondo l'evoluzione normativa ricordata nel paragrafo precedente, il legislatore degli ultimi venti anni ha mostrato di non ritenere soddisfacente il sistema previgente, benche' fino ad allora giudicato costituzionalmente corretto, procedendo via via ad eliminare tutte le ipotesi in cui lo stesso magistrato, chiamato a svolgere in prima battuta funzioni latamente decisorie su conflitti, poteva essere chiamato anche a comporre i collegi che - presso i tribunali - si occupano dei gravami interposti dalle parti rispetto alle sue decisioni. Si tratta di un mutamento significativo del quadro normativo, ispirato ad un'esigenza di maggiore rigore nella tutela dell'imparzialita' del giudice, onde evitare il condizionamento derivante dalla forza della prevenzione ed esaltare anche il suo apparire alle parti come tale. Cio' porta questo collegio a sollevare la questione di illegittimita' costituzionale anche con riferimento all'art. 111, secondo comma, della Costituzione pur a fronte dei precedenti contrari segnalati. Infine, la medesima questione appare non manifestamente infondata anche con riferimento all'art. 117, comma primo, della Costituzione, con riferimento all'art. 6 della «Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Liberta' fondamentali», fatta a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata in Italia con legge n. 848/1955. - L'art. 6 in oggetto afferma il diritto di ogni persona a che il suo processo si svolga dinanzi ad un tribunale «imparziale». La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo interpreta la norma come necessaria assenza di pregiudizio o di parzialita' in capo all'organo gudicante, ritenendo che anche le apparenze possono avere qualche importanza sicche' «non si deve soltanto fare giustizia, ma si deve anche vedere che e' fatta giustizia», essendo in gioco la fiducia che i tribunali debbono ispirare alla collettivita' in una societa' democratica. Una delle possibili situazioni in cui si puo' temere un difetto di imparzialita' dell'organo giurisdizionale, di natura funzionale, puo' riguardare l'esercizio nel medesimo procedimento di diverse funzioni giudiziarie da parte della stessa persona. Ad esempio, la Corte ha deciso: che la valutazione volta a stabilire se la partecipazione dello stesso giudice a diverse fasi di una causa civile sia conforme al requisito di imparzialita' previsto dall'art. 6 § 1 deve essere effettuata caso per caso, tenendo conto delle circostanze del singolo caso (Pasquini c. San Marino); e' necessario esaminare se il nesso tra le questioni sostanziali determinate nelle varie fasi del procedimento sia talmente stretto da far dubitare dell'imparzialita' del giudice che ha partecipato all'adozione delle decisioni in tali differenti fasi (Toziczka c. Polonia); la circostanza che un giudice partecipi a due procedimenti riguardanti i medesimi fatti puo' sollevare una questione (Indra c. Slovacchia). Trasponendo tale interpretazione dell'art. 6 della Convenzione sul piano interno, per il tramite dell'art. 117, comma primo, della Costituzione, se ne puo' derivare che nel presente procedimento, in cui l'oggetto della decisione non differisce in modo decisivo (per estensione e natura) da quello affrontato in prima battuta dal giudice dell'esecuzione, in cui i poteri delle parti non sono paragonabili a quelli di una ordinaria causa di cognizione civile, in cui il contraddittorio e' solamente cartolare, la previsione secondo cui il collegio decidente e' composto anche dal giudice che ha emesso il provvedimento reclamato si pone diretta in tensione con i principi sopra esposti. Da cio' la necessita' di esaminare la questione anche sotto il parametro costituzionale in rassegna. Il chiaro tenore testuale delle disposizioni censurate rende del tutto impraticabile una loro interpretazione costituzionalmente orientata, intesa ad affermare che il giudice dell'esecuzione non compone il collegio del reclamo ex art. 630 ultimo comma del codice di procedura civile. Nella fattispecie cio' diverrebbe una vera e propria operazione modificatrice del richiamato art. 178, quinto comma, del codice di procedura civile (che prescrive, implicitamente ma chiaramente, che il giudice dell'esecuzione integra il collegio decidente) non consentita al giudice ordinario dall'art. 101, secondo comma, della Costituzione. Del resto, escluso il giudice dell'esecuzione dal collegio decidente, non si comprenderebbe come l'intera sequela procedimentale precedente (reclamo presentato al g.e.; fissazione di termini per memorie da parte di questi) possa portare alla costituzione di un collegio ed all'individuazione del giudice relatore. Ne' risultano applicabili le disposizioni in materia di astensione obbligatoria del giudice ex art. 51 n. 4) del codice di procedura civile. Da un lato il richiamo all'art. 178, quarto e quinto comma, del codice di procedura civile costituisce evidente ed esplicita deroga interna alla disposizione da ultimo citata. Dall'altro, la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione si e' costantemente espressa nel senso «di non imporre che il giudice si astenga dal decidere sulle cause di opposizione agli atti esecutivi, quando l'opposizione e' proposta contro provvedimenti che lo stesso magistrato ha preso in qualita' di giudice» (Cassazione n. 5510/2003, in motivazione), e di non ritenere che l'opposizione ex art. 617 del codice di procedura civile costituisca tecnicamente «altro grado del medesimo processo». Vista l'affinita' fra tale tematica e quella del reclamo ex art. 630 del codice di procedura civile, la conclusione puo' essere tenuta ferma anche nel procedimento oggi in discussione. La questione sollevata non puo' dunque che essere rimessa alla Corte costituzionale.